Sono Maria Grazia e sono una sopravvissuta tra le poche dell’ Olocausto. Quando avevo cinque anni, la mamma mi accompagnò all’asilo, come ogni giorno. Ci avvicinammo alla porta della classe, dove si trovava la maestra e, come sempre, la abbracciai per augurarle il buon giorno. La maestra disse ad alta voce, perché c’ erano altre mie amiche, che, a causa delle leggi razziali non potevo più frequentare quell’asilo e nessun altro. Il pomeriggio la mamma mi portò a passeggio in città e, nella vetrina di una pasticceria c’era una torta che sembrava squisita, allora chiesi alla mamma :”Entriamo e compriamo quella torta?” e la mamma rispose :” No, ora dobbiamo andare a casa.” Notai che sulla porta era appeso un cartello che ahimè, non riuscivo a leggere. Passarono tre anni e intanto veniva da me due giorni alla settimana una maestra, che, in poco tempo, mi insegnò a leggere e a scrivere. Un giorno, sentimmo suonare alla porta, ed io, mia sorella e la mamma, non aprimmo perché sapevamo che in quei giorni nella nostra città c’era un gran fermento. Infatti la mamma ci fece nascondere in soffitta e da questa sentimmo gli spari dei fucili. Io non sapevo che cosa stesse succedendo intorno a me ma avvertivo che non era una cosa bella. Dopo un po’ la porta di casa fu sfondata e un rumore assordante colpì le mie orecchie e sentimmo dei passi salire le scale della soffitta. Io ero impaurita e mi strinsi forte alla gonna della mamma, mia sorella Serena, si nascose in mezzo a un mucchio di giocattoli. Il nostro nascondiglio non durò molto perché i soldati mi presero in malo modo mi strapparono a mia madre e mi caricarono su un camion dove c’ erano minimo cinquanta persone tra adulti e bambini. Arrivammo a una stazione dove c’era un vuoto e un silenzio tombale, un treno vuoto e freddo con sportelli di legno, ci caricarono, in fondo al vagone c’era un secchio, mi venne spiegato che serviva per fare i bisogni. A terra c’era sparsa un po’ di paglia e appena chiusero la porta, io iniziai a dimenarmi e a strillare perché avevo paura e non sapevo dove mi stessero portando, ma la cosa più importante fu che mi avevano separata da mia madre. Subito dopo i soldati sentirono che stavo strillando e mi legarono le labbra con uno straccio puzzolente in modo di non farmi più parlare. Il viaggio durò sette giorni però a me sembrò un’eternità. Quando ci fecero scendere dal vagone, mi ritrovai rinchiusa in un campo circondato da un filo spinato e un soldato di fianco ce mi dava bastonate ogni volta che mi mettevo a piangere. Mi sentivo molto triste e in pensiero per mia madre e mia sorella, avevo molta fame ma non potevo dirlo altrimenti mi facevano mantenere una pesante pietra nella neve. Ci portarono in una stanza dove c’erano sparsi pigiami a righe bianche e nere e il soldato ci disse di indossarli. Poi ci portarono in un magazzino dove dovevamo intrecciare piccoli fili per dodici ore al giorno, poi ci riportarono a piedi nel campo dove coi davano una brodaglia e un pezzo di pane indurito, erano tutti e due schifosi ma io avevo molta fame e li mangiavo. La mattina ci facevano alzare al buio e con le bastonate ci mettevano in cammino nella neve per andare a lavoro. In cielo vedevo sempre strane nuvole grigie e un giorno mi ritrovai in mezzo a scheletri di persone uccise. Arrivai a pesare quindici chili. Un giorno capii che le persone venivano uccise e bruciate nei forni crematori. Finalmente una mattina all’alba le truppe dell’armata rossa ci liberarono io ero sfinita, non riuscivo a camminare perché ci avevano fatti stancare troppo. Io avevo quattordici anni e mi facevo forza. Arrivata a casa mi accolsero i miei zii e scoprii che mia madre e mia sorella non ce l’ avevano fatta. Io per molto tempo mi ritenni fortunata di essere sopravvissuta!